Medioevo demolito e perduto

 



Medioevo demolito e perduto

Il titolo costituisce un omaggio alla  memoria di Colette Bozzo Dufour, che è stata titolare degli insegnamenti di Archeologia cristiana e di Storia dell’arte medievale, e guida magistrale per tantissimi allievi.

Un piccolo passo indietro nel tempo consente di raccontare due vicende di un medioevo genovese, demolito e perduto per sempre. Mi riferisco a scelte assolutamente remote, quando l’esigenza di sviluppo della Genova ottocentesca ha spianato, coperto, eroso interi quartieri che appartenevano al tessuto urbano della città medievale e del suo suburbio. Parlo di spazi che – agli amministratori e ai cittadini della fine del XIX secolo – potevano sembrare inadeguati, fatiscenti, pericolanti, inutili o semplicemente perché – nel fervore post unitario - dominavano le logiche del progresso (“Il secolo è nostro…”) o le supposte ragioni dell’incolumità pubblica: un’ottima giustificazione per nascondere le motivazioni reali di scelte amministrative scellerate. Anche allora, si levarono le voci del mondo dei saperi e della tutela, ma risultarono troppo flebili per contrastare il coro del qualunquismo (…un popolo manomesso nel più caro dei suoi diritti: la vita e l’incolumità), la voce opportunista della burocrazia (…il cattivo stato di conservazione …dipende dalla vetustà delle murature, le quali accennano a sgretolarsi e a sfasciarsi), il tutto accompagnato dall’assordante e ritmico battere del piccone demolitore. In questo modo – nel 1905 - la chiesa di San Siro fu privata della maggior parte del suo campanile medievale, con corredo di petizioni popolari (…giù il campanile che attenta ai nostri giorni). Alfredo d’Andrade si sforzò di dimostrare che i costi di demolizione e ricostruzione sarebbero stati superiori a quelli di restauro e conservazione. Le foto d’archivio e i disegni ci restituiscono immagine e memoria della torre campanaria del XII secolo. Posta sul lato meridionale della chiesa seicentesca, alta cinquanta metri, fino alla cuspide ottagonale, sovrastava le case del borgo di San Siro e costituiva indubbiamente un segnale visibile dal mare. La torre era del tutto simile a quelle - oggi ancora conservate - di San Giovanni di Prè e di Santa Maria delle Vigne. Per il lettore interessato, tutta la vicenda è stata esaustivamente ricostruita da Rita Cavalli. Se vogliamo proseguire in un itinerario ideale nel “medioevo demolito”, possiamo attraversare la città, spostandoci nel suburbio orientale, nella zona del colle di S. Andrea, che coincideva con l’area dell’attuale Via Dante e della parte più alta di Via XX Settembre. Il colle aveva un tessuto insediativo di origine medievale, era innervato da un’impervia viabilità, ed era indubbiamente un ostacolo allo sviluppo del nuovo assetto monumentale della città, realizzato tra fine Ottocento e inizi del Novecento. Porta Soprana e le mura del XII secolo separavano i quartieri interni dal suburbio. La chiesa e il monastero di S. Andrea de Porta erano ubicati sul colle, ad una quota che dobbiamo immaginare più alta di almeno quindici metri rispetto all’attuale piano di calpestio di Via Dante. Nella zona dell’attuale piazza (Raffaele) De Ferrari (Duca di Galliera), era ubicata la chiesa medievale di San Domenico, con una piazza antistante. Tra XVII e XVIII secolo furono realizzati i primi interventi sulla viabilità antica, per migliorare il collegamento tra la città e i nuclei del suburbio orientale. Dopo il 1642, fu tracciata la via Giulia, che univa la piazza di San Domenico alla chiesa di Santo Stefano. Il colle di S. Andrea fu progressivamente sbancato e sacrificato in nome della “pubblica utilità”, con l’esigenza di risolvere il problema della “viabilità orientale” e supportare la crescita economica della città. Il monastero di S. Andrea era già stato trasformato in carcere e, dopo un dibattito piuttosto articolato - ben ricostruito da Anna Dagnino - nel 1903 si arrivò alla decisione della demolizione dell’intero complesso, con il solo vincolo di smontare il chiostro medievale, per una sua futura ricomposizione. La stampa cittadina di quegli anni alterna celebrazioni entusiastiche dei “primi colpi di piccone” e una moderata coscienza delle demolizioni. Ovviamente, durante i lavori, emersero nuove strutture dal sottosuolo: una chiesa (…che pare appartenga al secolo XI), una torre circolare e resti dell’acquedotto romano. Le foto, i rilievi e le annotazioni hanno suggerito a Piera Melli di ipotizzare che la torre circolare fosse anteriore al tratto di acquedotto romano. Nulla fu preservato. Dopo le demolizioni, si pose il problema della ricollocazione del chiostro: accanto alla chiesa di S. Stefano, nei giardini di Palazzo Bianco o di Palazzo Tursi, a Villetta Di Negro o in un magazzino comunale. Le scelte dell’amministrazione fecero prevalere quest’ultima collocazione, e gli elementi furono ricoverati nell’ex chiesa di S. Agostino. Il chiostro fu portato a nuova vita soltanto nel 1922, quando se ne decise la ricomposizione vicino a Porta Soprana, “sul terreno sistemato a giardino circostante la casa di Colombo”, andando a formare ”una pittorica veduta di un interessantissimo gruppo di monumenti”. La potremmo definire la reinvenzione di un paesaggio urbano, tramite la creazione di un recinto artificiale di memorie patrie. Il visitatore odierno può percepire una formidabile porta urbana isolata e monca della prosecuzione delle mura settentrionali, un inspiegabile piccolo chiostro privato del suo contesto originale, un’improbabile casa di Colombo. Sono tracce di una memoria scivolosa, di un medioevo demolito, reinventato, e ricollocato nello spazio urbano. Sono due storie del passato di Genova, e tante altre se ne potrebbero raccontare (S. Margherita in Carignano, vico Dritto di Ponticello, Morcento, Porta Aurea, ecc.). Credo che il lettore possa valutare l’impatto perenne delle scelte politiche sulla “forma” della città, soprattutto quando i portatori di conoscenza sono stati messi a tacere, o quando chi amministrava ha scelto di ascoltare solo la parte più disposta ai compromessi.







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