Nell'estate 2022 la redazione genovese de "la Repubblica" mi ha chiesto un intervento sul tema "La fabbrica della memoria". Ho scelto di parlare del porto medievale di Genova, scoperto e nuovamente sepolto 30 anni or sono. Qualche giorno dopo il tema è stato ripreso in un servizio/intervista dalla TGR Liguria. Ripropongo il mio testo originale, con una delle foto che corredavano l'articolo, e condivido il collegamento al servizio televisivo
Vedi TGR Liguria "Il porto medievale di Genova, riscoperto e subito perduto"
Il fantasma della Ripa che non smette di sussurrare alla ricerca del porto medievale
Le immagini dell'archivio Ansaldo evocano "uno dei momenti più bui nella storia della gestione del patrimonio urbano di Genova, coinciso con la distruzione del porto medievale della città". Ho utilizzato una frase di Sauro Gelichi, decano dell'archeologia medievale italiana, instancabile esploratore dei percorsi dell'archeologia urbana e attento osservatore dell'attuale sviluppo della "public archaeology", ossia di quel processo condiviso che sta reindirizzando socialmente la funzione della disciplina. Tiziano Mannoni trent'anni or sono scriveva: "... il grande porto medievale di Genova è realmente scomparso. È come se fosse improvvisamente esploso poco prima che suonassero le trombe del cinquecentesimo anno, e i suoi frammenti sono sparsi a decine di migliaia in un raggio di quindici chilometri...". L'immagine è drammaticamente vivida, anche se il tempo ha rimosso la percezione dei luoghi e per i cittadini e i visitatori odierni è del tutto impossibile coglierne lo spessore storico.
Andiamo ai fatti, che costituiscono il corollario alle foto d'archivio. La ricorrenza del quinto centenario della scoperta dell'America portò a Genova l'onere di organizzare l'Esposizione Internazionale Genova '92 - Cristoforo Colombo, la Nave e il Mare. Come sede non fu scelta una area dismessa e lontana dal centro cittadino, ma si pensò di realizzare finalmente un restylig dell'area del Porto Antico. L'idea originale - secondo Renzo Piano - era abbattere quel diaframma artificiale che separava la Ripa dall'area portuale, in modo da restituire a Genova "il contatto con il mare e ristabilire un rapporto con l'acqua". Ma a quale tipo di riqualificazione e recupero del "Porto antico" si pensava e si intendeva recuperare? Quello medievale e prevalentemente ligneo di Guglielmo Embriaco? Quello in pietra dell'età di Cristoforo Colombo? Il terminale marittimo sabaudo, o il porto industriale e mercantile del XX secolo? Certamente i Magazzini del Cotone, gli edifici del Porto Franco e le antiche gru avrebbero rappresentato la nuova icona identitaria e atemporale del "Porto antico", associati a nuovi spazi, nuove funzioni, nuovi emblemi: il Bigo, la Bolla, la Nave. Alla fine degli Anni'80 il recupero materiale del fronte portuale medievale e della sua crescita fino all'età di Colombo e fino alle vistose modifiche urbanistiche della prima metà del XIX secolo era un'operazione culturalmente possibile, avrebbe consentito una nuova lettura del centro medievale, permettendone una valorizzazione organica: i moli sporgenti dalla Ripa, il molo vecchio posto a protezione a Levante, i magazzini, la Zecca, la Dogana del Mare e la percezione di una città medievale dove il mare era a contatto diretto con i portici, le raibe, gli emboli della Ripa e gli stretti vicoli del centro storico. Per altre intese e per altre idee progettuali, era - invece - ritenuto fondamentale ricreare uno spazio aperto intorno a Palazzo San Giorgio, creare continuità di percorso pedonale tra Piazza Banchi, Piazza Caricamento e l'area dell'Expò, eliminare il flusso continuo di autoveicoli di Via Gramsci, con la creazione di un sottopasso e reinventare topograficamente un "Porto Antico", fatto di squarci e di recinti della memoria, in dialogo con spazi nuovi, vocati al turismo, alle attività ludiche, al commercio, senza intralcio alcuno, adatti ad un grande movimento di persone. Gli scavi per l'Expo e per il sottopasso interessarono un'area di 17.000 metri quadri e fin dall'avvio emerse la rete dei moli e delle strutture che erano noti dalle fonti, dalla cartografia storica, da precedenti interventi di archeologia d'emergenza. A Genova si sviluppò un ampio dibattito su quale futuro dare ad una parte significativa del passato della città. Un parco archeologico, anche parziale, era in palese conflitto con le linee di progetto e con le scelte considerate di "pubblico interesse". Nella zona del sottopasso si celebrò, quindi, il vero delitto, nel momento in cui fu deciso che lo scavo e la rimozione dei moli antichi erano l'unica soluzione.
L'interruzione del lavoro degli archeologi fu sancita nel febbraio 1992 da un provvedimento del Ministro dei Beni Culturali, tenuto allora "ad interim" da Giulio Andreotti. I resti tagliati meccanicamente e imballati in casse iniziarono un pellegrinaggio tra Scarpino, San Quirico e il Lagaccio, in attesa di una ricollocazione invocata, promessa sul momento, ma mai realizzata. Quello che rimane sono le fotografie d'archivio, ma ancora di più l'innegabile sforzo degli archeologi di allora - voglio citare soprattutto Piera Melli - a indagare, documentare, studiare tutte le tracce esistenti nell'area dell'Expo, negoziando e determinando modifiche al progetto originale, preservando Ponte Spinola, Ponte Calvi e la banchina a mare ottocentesca. Quello che rimane è prevalentemente invisibile. Quello che rimane sono fotografie, documenti di archeologia, reperti in gran parte inediti e pubblicazioni preliminari che restituiscono una conoscenza dell'evoluzione del porto antico di Genova e ci parlano di una potenzialità irrisolta. Quello che rimane è obbiettivamente tanto, quello che non si può vedere è drammaticamente troppo. Ma questa è solo l'opinione di un archeologo. L'ultima riflessione è dedicata alla memoria: viviamo in una realtà che "deve" essere veloce, smart, dove i continui richiami alla transizione e all'innovazione nascondono ottime strategie per tendere alla semplificazione e alla rimozione dei problemi e della memoria. Tuttavia, una società senza profondità temporale e con un'identità te rinegoziata con una leggerezza culturale insostenibile non credo possegga gli strumenti più adeguati per superare i rischi del quotidiano e per progettare un futuro in cui il passato trovi spazio.
Proprio per questo serve ancora ascoltare il sussurro del "Fantasma della Ripa", titolo di un archeo-dramma scritto da Tiziano Mannoni e che forse varrebbe la pena rappresentare.
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