Fare la Baciocca: Il racconto di Giovanni Barattini da Sopralacroce




Fare il pane a casa era completamente diverso. Il lievito si “tramandava” da una volta all’altra, ma qualche volta andava a male, perché non c’era sempre la farina di grano a disposizione per fare una seconda volta il pane. In casa, avevamo un piatto fondo e grande, non come quelli che si usano oggi a tavola, era più grande, fatto come una campana schiacciata, come un catino. Era di ceramica ed era di  colore giallo, ma era tutto rovinato e scrostato[1]. La pasta del pane la tenevamo dentro a quel contenitore per una settimana, faceva tutta la muffa, fuori diventava quasi verde, ma non dentro eh !

Poi si prendeva dell’acqua calda e si miscelava alla pasta del lievito, si aggiungeva della farina e si faceva lievitare per una mezzora, poi se ne aggiungeva altra, finché diventava più di tre chili di peso. Poi, una volta lievitato, si preparava per la cottura.

Dalle mie parti i testi a campana e i testetti di terracotta di cui mi avete parlato voi non si usavano[2], ma io li conosco bene, perché in Val Graveglia, fino a Cassego e a Comuneglia, li utilizzano tutti. Io ne ho mangiato di quelle focaccette di farina (di grano) e di granoturco, condite con l’olio e il formaggio, oppure asciutte, usate come pane. Dalle nostre parti si usava il testo di ghisa,  sospeso sul  focolare con una catena, almeno a mia memoria.

Ancora adesso, per cuocere il pane io e mia moglie utilizziamo la campana di ghisa. Sotto alla campana c’è una piastra rotonda, sempre di ghisa, oppure ci può essere un fondo di mattoni, che sono molto meglio per la cottura, perché la mollica del pane non rimane umida al centro. Si prende un fascio di legna di castagno o di faggio, ma che siano rametti di legna fine, al massimo tre centimetri di diametro. Si mette un po’ di ginestra nana secca e si da fuoco. In tutto ci vorranno quattro o cinque chili di legna. Poi si prende la campana di ghisa e la si appende sopra al fuoco, con una catena.  Man mano che la legna brucia, si abbassa la campana, fino a quando si arriva all’altezza della piastra di ghisa, quattro centimetri sopra. Si alza, si scopa via tutta la brace dal suolo del focolare e dalla piastra, poi con un colpo, si fa scivolare la pagnotta sulla piastra. Io non ci riesco, non lo faccio, perché va a finire che tiro via il pane. Mia moglie va li e...trac, il pane rimane perfettamente sulla piastra. Si fa scendere la campana e lo si tiene così per cinque minuti, non di più, pè levaghe u subrin. Non so come si dica in Italiano. Noi diciamo “tanto che non brucia”. Poi si alza la campana, si mette un foglio di papè mattu (carta oleosa) sopra al pane e si copre nuovamente con il testo a campana. Le braci che prima erano state spostate di lato, vengono messe sopra la campana e tutto intorno. Tra la campana e la piastra, si mette la cenere, per garantire la chiusura. Il pane cuoce in quaranta minuti, di più non bisogna lasciarlo, altrimenti “rinviene” e diventa un po’ cattivo da mangiare.

L’avete mai assaggiata la baciocca ? Anche quella si può cucinare sotto il testo di ghisa. Ricordo che per prepararla mia madre rivestiva di foglie di castagno il turtā (il tagliere di legno), poi schiacciava bene due o tre patate bollite, faceva friggere due cipolle e, una volta pronte le mescolava e le pressava insieme alle patate schiacciate, con un po’ di sale, aglio, con il formaggio grattugiato, un uovo e un po’ di lardo di maiale. Ora non si usa tanto, ma che buono che era.

A parte, si preparava una sfoglia di farina di grano, la si posava sopra a delle foglie di castagno e poi si disponeva all’interno l’impasto, ma ben pressato.  La baciocca cuoceva sotto au téstu in una ventina di minuti. Era un mangiare talmente buono, che noi ragazzi ce lo rubavamo. 

Infine vi voglio raccontare di come la gente, quelli vecchi,  viveva in certe cucine e negli essiccatoi delle castagne. Io ho circa sessanta anni di ricordi personali. Da me c’erano due famiglie e vivevano proprio dentro gli essiccatoi e come illuminazione c’era solo il fuoco con cui si riscaldavano. Quando era stagione e si doveva essiccare le castagne, belin, c’era un fumo incredibile e, se non eri abituato, per respirare dovevi sdraiarti quasi per terra, perché il fumo tende ad andare in alto. Quei vecchi ci stavano in piedi, non soffrivano niente, perché l’organismo e i polmoni si erano abituati al fumo. Io andavo a trovarli, perché i figli avevano la mia età.

Ci vivevano, ci passavano la sera, facevano la veglia[3], e ci dormivano nell’essiccatoio. Non andavano nemmeno a letto, ché in quel modo potevano dormire al caldo. Prendevano una sedia, giravano la spalliera,  allungavano le braccia, ci appoggiavano la testa e dormivano così. Stavano li fino alle quattro del mattino, poi si alzavano e partivano. Andavano a rastrellare e a raccogliere le foglie fuori, per fare il letame. Voglio dire che le portavano nella stalla per fare la lettiera alle bestie e, in questo modo, si faceva poi il letame. Avevano settantacinque o ottanta anni quei vecchi, ma erano formidabili, dormivano qualche ora su una sedia e poi andavano a raccogliere le foglie e le castagne. Uscivano al lavoro che era ancora notte, quando al mattino, col novembre, c’è la luna chiara. Erano formidabili, mentre – ora - noi siamo come dei nani.



[1]  Si tratta dei catini o conche di “giallo d’Albisola”, che potevano essere decorati a spugnato di manganese, oppure semplicemente ingobbiati e rivestiti di vetrina di colore giallo.

[2]  Si tratta dei piccoli testelli di terracotta e dei testi a campana schiacciata con cui in Val Graveglia si realizza tradizionalmente un tipo di panificazione domestica, basata sull’utilizzo delle farine di grano, di mais e di castagne.  Queste forme di panificazione domestica, così come la produzione artigianale dei testelli e dei testi grandi, sono documentate archeologicamente a partire dall’età protostorica e perdurano localmente fino all’età moderna. I centri di produzione erano diversi e le aree di utilizzo sono la Val Graveglia, l’Alta Val di Vara, la Val Gromolo e la Val Petronio. Attualmente sono ancora attivi produttori di testi e testelli a  Iscioli (Val Graveglia) e a Monte Domenico (Val Gromolo). Chi è interessato ad approfondire il tema archeologico e la relativa bibliografia, può trovare informazioni in F. Benente, R. Codovilla - F. Pastorino, Nuovi dati sulla circolazione delle ceramiche comuni grezze nella Liguria orientale, in Atti XXXVII Convegno Internazionale della Ceramica, Albisola 2004, pp.63-80 .

[3] Per tradizione, il seccatoio era il luogo dove si chiacchierava e ci si affumicava al calore del fuoco. In Val Graveglia si diceva  i fan a végia inta grè. Molte grè avevano, infatti, le panche disposte lungo i muri, intorno al fuoco. 

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